Intervista ad ARNOLDO FOA
Può dire qualcosa a proposito della sua formazione?
Allora… nel Millenovecento… non so quale Mille e non so quale Novecento… cercavano un attore per fare una parte: io ero un ragazzino, avevo forse 15 o 16 anni. L’Opera Nazionale Balilla faceva uno spettacolino. Il regista poi è diventato un mio amico. L’età mi fa dimenticare anche il nome di questo personaggio che è stato mio amico per tanti anni. In questa occasione ho avuto un successo particolare. Particolare perché non era un successo di pubblico. Ma un successo fra noi ragazzi che recitavamo. Durante il primo spettacolo infatti (l’unico credo che abbiamo fatto) il ragazzo che doveva venire a parlare con me in una scena non si è presentato. Ed io sono andato avanti per due, tre, quattro minuti – non so quanti – dicendo le mie e le sue battute in modo tale che nessuno, nel pubblico, si è reso conto che il ragazzo che doveva parlare con me nella scena mancava. Questa trovata ha avuto un successo enorme fra i miei compagni che hanno detto «Quanto sei stato bravo!» perché nessuno nel pubblico si era accorto della mancanza di un attore. Questo «Quanto sei stato bravo!», a me che non ci avevo mai pensato, mi ha fatto venire in mente che avrei anche potuto fare l’attore.
Ha frequentato una Scuola di recitazione?
Sono andato in una Scuola che era diretta da Raffaello Melani, al Teatrino di Via Laura, qui a Firenze, una scuola che non c’è più. Melani era insegnante di recitazione ed era anche il direttore della Scuola. Devo dire che lui non sapeva come si insegnasse a una persona a essere attore. L’unica cosa che sapeva fare era la pausa: «Pausa!» diceva. E da lui ho imparato a fare le pause. Era una persona deliziosa. Era insegnante di Storia della Musica al Conservatorio di Firenze. In questo era bravissimo, forse. Non lo so perché non ho mai fatto la Scuola di Musica. Ma come insegnante di recitazione credo di non avere imparato niente da lui. Però ho fatto due spettacoli il primo anno e il secondo anno. I due spettacoli di fine anno. E sono stato criticato dal critico di Firenze – che era cattivissimo – in modo straordinario, eccezionale. Una era una commedia che era stata fatta da Ruggeri e la seconda, il secondo anno, era una commedia che aveva appena fatto Benassi. Sia Ruggeri che Benassi le avevano interpretate uno o due giorni prima di me, quindi il critico aveva in mente il ricordo fresco sia di Ruggeri che di Benassi. In queste due commedie facevo le parti di uomo anziano, non di giovane. Quando ho cominciato la mia carriera non ho mai fatto i giovani, gli «amorosi»: ho fatto un amoroso solo da ragazzo.
In quale commedia?
Lo facevo in una commedia in cui recitavo insieme ad una attrice di cui adesso non mi viene in mente il nome. Era una grande attrice italiana che poi è diventata insegnante alla Scuola di Recitazione di Roma. Facevo una parte di ragazzo che si era innamorato di una donna di una certa età. La commedia non mi ricordo come si intitolasse. La protagonista aveva ricevuto una dichiarazione d’amore da parte di un signore che aveva qualche anno meno di lei. Dato che era più giovane di lei, lei era incerta se dire o meno di sì a quest’uomo. Ma quando il ragazzo le fa, a sua volta, la dichiarazione d’amore, lei pensa «se me la fa un ragazzo, allora posso anche accettarla da un uomo di una certa età, anche se è più giovane di me». Questa era la trama della commedia. Questa dichiarazione d’amore che facevo io era un po’ lunghina, tanto che lei mi disse: «accorciamola perché non mi piace». Io ritenevo che fosse molto importante per la commedia e infatti era importante. Le risposi: «sì, la accorcio se il regista mi dice di accorciarla, non se me lo chiede lei». Lei si arrabbiò perché era la prima donna. La feci, in scena, una prima volta e, dopo, lei mi disse «tagliamola». La seconda volta eravamo a Bologna. E questa attrice, a un certo punto, dice una battuta che ne saltava molte in modo da arrivare prima alla fine della commedia. Ed io, a questa sua battuta, risposi: «forse voleva dire…» e poi dissi la battuta che lei avrebbe dovuto dirmi. Lei mi lanciò una occhiata che pareva dire che mi avrebbe ammazzato volentieri. Però, alla fine, la feci talmente bene, evidentemente, questa dichiarazione d’amore che una signora, su un palchetto di proscenio del teatro dove recitavamo, disse «pauvrèn!» (poverino) e venne giù un applauso. E allora lei, l’attrice, rimase sbilanciata perché, da un lato, mi aveva voluto tagliare la parte e da quell’altro aveva sentito l’applauso preceduto da quel «pauvrèn!» detto con tanta affettuosità da questa signora. Questa è stata l’unica volta che ho fatto un «amoroso». Dopo ne ho fatte pochissime, anzi nessuna… Questi sono gli inizi. Le ho raccontato qualche episodio degli inizi.
Come mai non ha fatto più parti di «amoroso»?
Perché a me non piacciono i ruoli di «amoroso», non sono mai stato un bello, sono stato un uomo, ma non mi sono mai sentito bello, amoroso, importante, affascinante o cose del genere. Sono partito da anziano. Anche quando ero ragazzo mi sono quasi sempre messo parrucche da vecchio. Non ho mai fatto parti di giovanotto. Salvo quel personaggio che le ho detto.
Quali sono gli spettacoli cui è più legato?
Potrei dirle che sono i miei, quelli scritti da me. Dato che ho scritto commedie. Quindi forse quelli cui sono stato più legato sono stati i miei. Non tanto perché avevano più successo degli altri, devo dire – onestamente, senza darmi arie – che sono andati tutti molto bene.
Ha cominciato a scrivere commedie nel 1957. E poi ha anche diretto alcuni spettacoli.
Sì, tanti.
Quali considera siano stati i suoi maestri?
Tutti. Non ho avuto una persona che ho imitato, o che mi ha dato qualcosa. Tutte le persone mi hanno dato qualcosa. Tutti gli attori che ho stimato mi hanno dato qualcosa. Ho cercato di capire perché recitavano in un determinato modo. Io poi non ho mai recitato come loro. E’ una questione di sentimenti. Come deve esprimere i sentimenti un attore? Vedendo come i grandi attori esprimevano i loro sentimenti, io li ho espressi a modo mio. E’ importante che un attore esprima i propri sentimenti secondo una sua personalità, è come imparare qualcosa da qualcuno. Non il modo di recitare. Questo no. Nessuno me lo ha insegnato. E’ mio. Non per darmi delle arie. Ma un attore deve essere se stesso anche se cambia personaggio, è sempre se stesso: perché sono i suoi sentimenti che lo portano ad essere in un certo modo o a pensare quali possono essere i modi per esprimere sentimenti che non sono suoi.
Al cinema ha lavorato molto, nei primi tempi, con Blasetti. Com’era lavorare con Blasetti?
Ho fatto due, tre film con Blasetti. Blasetti era delizioso. Era un uomo straordinario. Semplice, bravo. Modesto, direi, come persona. Non si dava arie anche se portava sempre gli stivali.
Pensa che il teatro di oggi sia in crisi?
Per lo meno mi pare che si facciano poche grandi cose, però si fanno. Ci sono attori che fanno spettacoli scritti qualche annetto fa, qualche secolo fa. E questo è molto bello.
Ha lavorato, in teatro, con registi come Visconti, Strehler, Sharoff. Qual è il regista con il quale si è trovato meglio?
Direi Visconti, perché anche se non eravamo d’accordo, ha accettato quello che volevo fare io. Ha accettato il mio modo di esprimermi.
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