Intervista ad Alessandro Baricco
Una formazione a 360° è un concetto molto americano, perché ha deciso di implementarlo nella sua scuola?
L’idea che c’è dietro è quella di formare dei narratori. Fare il giornalista, lo scrittore, lavorare nel cinema, nella radio, nella pubblicità, in rete… sono tutti mestieri di narrazione. La scuola è costituita di sei college diversi; esistono insegnamenti di base prima di specializzarsi in un gesto/mestiere particolare, da quello più antico come lo scrivere libri a quello più nuovo come cross-media e le narrazioni seriali.
La figura del narratore specializzato è scarsamente convincente ormai. Mentre in passato gli scrittori sembravano vedere il mondo con più profondità e lucidità di chiunque altro, oggi se si limitano solo a quello non hanno più l’ascolto che magari meriterebbero.
Persino gli scrittori della mia generazione non sono più “scrittori puri“, siamo tutti destinati a fare più mestieri.
– Parlando dei diversi mezzi per comunicare, Novecento è un monologo che si è prestato al teatro e al cinema; ha mai pensato di farne anche un Musical, visto che già esisterebbe la musica di Ennio Morricone?
Credo che in Italia manchino drammaturghi e compositori per questo tipo di genere; subiamo il peso della tradizione operistica. Non avrei alcuna obiezione a riguardo, ho visto fare Novecento con le marionette e interpretato da protagoniste femminili e ne ero lusingato.
– Come definirebbe il suo rapporto con l’America?
Non c’è alcuna idolatria ma di certo i miei libri sono pieni di America. Il cuore di tutta la faccenda de “I Barbari” viene da Google…
– Com’è Vivere New York per Alessandro Baricco?
Sono venuto a lavorare qui, sia per il cinema che per scrivere o fare reportage; mi sono anche sposato qui, ma tutto è successo occasionalmente, non mi sono mai trasferito per un certo numero di anni.
Ho dei posti del cuore di riferimento ma sono molto privati. Non hanno alcuna caratteristica particolare ma sono stati importanti nella mia vita, luoghi in cui ho conosciuto persone per me importanti che volevo incontrare da una vita.
Grazie al mio agente americano, Andrew Wylie, sono riuscito a vedermi con Gordon Lish. Avevo seguito con attenzione tutta la vicenda dei racconti di Raymond Carver e gli avevo scritto; incontrarlo è stato notevole.
Mi ricordo di altri bellissimi incontri con scrittori americani qualche anno quando venni al festival di New York con “Senza Sangue“: quando vengono da noi in trasferta sono un po’ in vetrina, vederli qui nel loro habitat naturale ha tutto un altro sapore… Mi ricordo di aver incontrato anche Norman Mailer anni fa.
– New York è magica perché sembra una costellazione: tirando le linee tra i vari punti viene sempre fuori una figura. È così anche per lei?
Certamente. Los Angeles invece è più vaga e dispersiva. Però anche a San Francisco si può fare un bel bottino di esperienze. È un po’ più di nicchia. New York e Londra sono due città in cui, se vuoi, puoi incrociare lo spirito del mondo.
– Un’ultima domanda: parlando di comunicazione a tutto tondo, come gestisce Alessandro Baricco i social media?
Malissimo (ride). Per i giovani è uno strumento indispensabile. Ho Twitter perché la scuola mi ha chiesto di farlo, ma lo controllo molto poco. Ho scritto forse cinque volte in un anno, non ne sento il bisogno. Ho una vita talmente piena che non ho neanche il tempo da dedicare a questi strumenti e anzi sono un po’ spaventato dalla troppa comunicazione.
Non fraintendermi, non sono fiero del mio atteggiamento a riguardo e non lo considero un valore; semplicemente per me non è ragione di piacere. Sono io che sbaglio… i ragazzi d’oggi non possono farne a meno.
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