Intervista a MARIO SCARPETTA
Comincerò col palare del personaggio, creato da Antonio Petito, di Felice Sciosciammocca, racconterò come nasce, come diventa, come vive.
Sciosciammocca in napoletano significa l’allocco, uno che sta così, con la bocca aperta, come un ingenuo. Con Eduardo Scarpetta questo personaggio di allocco, di ingenuo si evolve e diventa invece un personaggio che fa parte della borghesia napoletana: Borghesia napoletana che nel 1850-’60 cominciava a prendere piede dopo che Napoli non era più capitale di un regno. Eduardo Scarpetta ha avuto, secondo me, il merito di elaborare, di ingrandire, di ingigantire questi aspetti del personaggio, Felice Sciosciammocca, riuscendo ad introdurlo in un certo tipo di società e facendolo diventare un personaggio a se stante. Questo personaggio ha influenzato moltissimo la fine dell’800 teatrale napoletano tanto da interessare Eduardo De Filippo, Peppino De Filippo, Raffaele Viviani: è diventato un personaggio a tutto tondo e sono tantissime le commedie attraverso le quali è possibile seguire l’evoluzione del personaggio di Felice Sciosciammocca.
Vincenzo Scarpetta, mio nonno, ereditò questo personaggio dal padre Eduardo Scarpetta e subì molto questa supremazia del padre, che era stato veramente un grande, e fu quasi costretto, psicologicamente non materialmente, a continuare questa dinastia teatrale. Se io dico che non era all’altezza non voglio sminuire il lavoro e l’opera di mio nonno, ma mio nonno voleva fare altre cose, mio nonno voleva essere un compositore, mio nonno si innamorò perdutamente di una soubrette francese che era Eugenie Fugier e il bisnonno gli disse: “Se tu sposi e vai a Parigi io moro”. E mio nonno non sposò questa Eugenie Fugier. E ci sono un sacco di lavori teatrali del nonno con le sue musiche, il nonno componeva le musiche per le commedie del padre.
C’è un episodio, riguardo a questa passione musicale di mio nonno Vincenzo, che mi ha raccontato Eduardo De Filippo. Allora il nonno scrisse la parodia de “La donna è mobile” e la Siae, la società degli autori che più o meno nasceva allora, stiamo parlando del 1911 o di qualcosa del genere, aveva come regola che superate le sette note era plagio. Allora vennero in teatro questi della Siae per controllare se c’era plagio e c’era un pezzo di questa “Donna immobile” che faceva: “La donna immobile qual piuma al seno”… Insomma, questi della Siae giù in sala ascoltavano la musica e contavano sulle dita il numero delle note. E allora il nonno quando seppe questa notizia cambiò ogni settima nota e così non era plagio. Ecco perché dico che la passione di mio nonno era la musica, io ho su a casa il suo pianoforte. Il nonno in Santarella suonava il pianoforte perché doveva doppiare l’organo che c’era in scena. Poi è stato anche, diciamo così, il creatore, professionalmente di Eduardo. Perché Eduardo ha scritto per lui, per lui e per la compagnia nella quale lavorava. Eduardo era l’attore più pagato della compagnia di Vincenzo Scarpetta e ha scritto per lui, per la compagnia, commedie come Ditegli sempre di sì, Uomo e galantuomo, Peppino mi pare scrisse Non è vero ma ci credo con Titina, ma per il nonno.
Eduardo non aveva assolutamente rancore o remora a dire mio fratello Vincenzo. Vincenzo è quello che l’ha formato professionalmente. Il nome “direttore”, che è quello che Eduardo aveva scritto fuori della porta del suo camerino, e come tutti quanti gli attori delle sue compagnie lo hanno sempre chiamato, è un nome che deriva dal fratello, da mio nonno. Mio nonno aveva l’abitudine di mettere un registro fuori del teatro, all’ingresso del teatro, che veniva tolto quando il direttore di scena dava la mezz’ora. Se alla mezz’ora non c’era il nome di un attore che doveva stare in teatro, veniva multato. Quando sono entrato in compagnia con Eduardo al Teatro Eliseo, mi sono ritrovato questo registro davanti e ho chiesto: “Ma che è ‘sta cosa?”. “Il direttore vuole che si faccia così”. E quindi penso che il legame che c’è stato fra Eduardo e mio nonno sia stato molto, molto, molto, molto profondo.
Ma, torniamo a Felice Sciosciammocca che, in un certo senso, sostituisce nei consumi del teatro popolare il personaggio di Pulcinella, anche se c’è qualcosa che cambia e che caratterizza in modo proprio il personaggio di Felice Sciosciammocca. Innanzitutto, la gestualità di Felice Sciosciammocca è una gestualità molto più contenuta. Pulcinella – a parte le sue origini popolari antiche e via dicendo – infatti vive, nasce e cresce in un’epoca in cui la gestualità era accentuata era, non voglio dire esasperata, non voglio usare un termine negativo, però era eccessiva. Felice Sciosciammocca, invece, esce dal teatro popolare, dalla Commedia dell’arte e cresce in un ambito borghese; il suo gesto allora si fa più contenuto, si fa più misurato. Non si indica più violentemente: “lì” (con enfasi), ma si dice “lì” (con fare pacato), non si fa più così (mostra un esempio di gestualità) si fa così (mostra un altro esempio contrapposto al precedente). Perché il gesto si commisura a quello che la società diventa. La società si comprime, si compatta in se stessa e per cui anche il gesto diventa più limitato, più contenuto, più misurato. Questa maniera di vivere ha comportato un cambiamento di gestualità negli autori susseguenti. Un guappo di Viviani fa così (mostra il modo). Quando io in Uomo e galantuomo, che ho fatto in televisione con Eduardo, interpretavo la parte del guappo, di Don Salvatore, Eduardo perse, purtroppo, un sacco di tempo per farmi capire come un guappo dell’epoca, 1920, si toglieva il cappello. Allora i guappi dell’epoca, mi disse Eduardo, avevano un cappello tipo borsalino con una spilla da balia qui (indica la fronte) in modo che facesse un triangolo, perché si dovevano infilare le tre dita così (mostra il modo) per far così (mostra il modo). Queste sono state lezioni di gestualità, per me, importantissime. Eduardo era una persona, un direttore che in teatro ti faceva capire pure come dovevi mettere i piedi. Certe volte mentre recitavi con lui ti guardava le scarpe perché magari ne avevi una lucida ed una no. E allora tu in scena rimanevi stupito a chiederti: “Che sta facenn’, che cos’è, perché mi guarda le scarpe?” Poi andavi in camerino e realizzavi che avevi una scarpa lucida ed una pulita. Queste per me sono state grandissime lezioni di teatro. Poi Eduardo checché se ne dica era una persona splendida fuori dal teatro. Sul teatro era un direttore rigido, come si deve essere, ma fuori dal teatro era una persona amabile. Io ho trascorso delle giornate a casa sua a via Aquileia a Roma a pranzo e dopo pranzo, dove mi ha raccontato tutta la storia della famiglia Scarpetta. Mi raccontò di un episodio di lui bambino a Firenze, quando erano in un residence lui, il padre Eduardo Scarpetta e donna Rosa De Filippo, la moglie di Eduardo Scarpetta. E lui correndo, fece cadere un oggetto dal tavolino e il bisnonno, il padre vale a dire, gli dette uno schiaffo terribile e lui andò a sbattere con la testa vicino allo spigolo di un pianoforte che c’era in questo residence e si mise a piangere. Venne fuori donna Rosa De Filippo, prese questo bambino, che lei sapeva non essere suo figlio ma il figlio del marito, e disse al marito “Tu non glieli devi dare gli schiaffi, hai capito?” E Eduardo raccontandomi questa cosa si mise a piangere. Forse sono uno dei pochi che ha visto Eduardo De Filippo piangere, però questo dimostra quanto bello, grande e umano fosse Eduardo fuori dalla scena.
In scena Eduardo era severo, come lo era Eduardo Scarpetta, una persona molto dura, molto rigida. Credo che sia Eduardo che mio nonno abbiano ereditato ed assunto da lui questo tipo di atteggiamento, che poi è sacrosanto e giusto perché così si deve fare in teatro. Ma Eduardo per esempio mi ha raccontato che Eduardo Scarpetta era una persona che oltre la rigidezza voleva una certa scioltezza in teatro. E allora qualche volta si divertiva a far ridere gli attori in scena, così come faceva Eduardo, ed è capitato a me ne Gli esami non finiscono mai, Uomo e galantuomo, Le bugie con le gambe lunghe. Eduardo mi raccontò anche di quest’episodio di Eduardo Scarpetta che faceva recitare il suo cameriere, Milone, così si chiamava. Milone, ovviamente, faceva una comparsa e c’era questa scena in cui doveva stare fermo lì, sotto la porta, con un’alabarda in mano, serissimo. Allora Eduardo Scarpetta – mi diceva Eduardo – cominciò a fare delle cose per far ridere. Tutti gli attori ridevano, sorridevano, insomma non era una cosa esagerata, si stavano divertendo perché mio nonno li faceva divertire e Milone, invece, doveva restare immobile, fermo. Il bisnonno andò sotto a Milone lo prese per la collottola e gli disse: “E ridi, ridi!”. E Milone fece: “Eh! Eh! Eh!”
Oppure mi ricordo di come Eduardo voleva farci ridere in scena, ne Gli esami non finiscono mai al terzo atto, quando Guglielmo Speranza non parla più e a un certo punto deve farsi la barba, allora noi tutti quanti eravamo disposti spalle al pubblico e lui era l’unico di faccia perché era sulla poltrona. C’era il personaggio che faceva il barbiere che faceva finta di insaponarlo e poi faceva finta di raderlo. E lui faceva queste cose (mostra delle smorfie), ma senza parlare. Approfittava di questi momenti e noi facevamo con le spalle così (le muove) perché ridevamo come matti. Oppure in Uomo e galantuomo, in una scena famosissima col suggeritore, che era Gennarino Palumbo, dato che lì è tutto quasi a soggetto, lui si inventava delle cose. Per esempio, a un certo punto, un punto in cui il suggeritore dice: “Dopp’ ‘a mort’ e padet”. Eduardo piglia e fa: “Dopp ‘a port’”, era una cosa che non era stata provata, “dopp ‘a port’”, e allora Gennarino dice no: ” Dopp ‘a mort’ ” – “che ce sta dopp ‘a port’ “- “niente” – “come dopo la porta non ci sta niente. Ci deve stare qualcosa dopo una porta”. E il cameraman cominciò a fare con la telecamera così perché stava ridendo lui, il giraffista. Ecco, questi erano i momenti più belli – a parte poi i momenti d’arte di Eduardo – i momenti in cui uno si scioglieva con Eduardo.
Volete sapere qualcosa della storia di questo palazzo del mio bisnonno in cui io abito?
Dunque, questo palazzo viene chiamato ancora palazzo Scarpetta, ma in realtà non è più tutto degli Scarpetta e il bisnonno se lo fece costruire con i proventi della commedia Na’ santarella. Però, Na’ Santarella, chiamò la villa che si fece costruire al Vomero, quando il Vomerob era ancora campagna. E la moglie, donna Rosa De Filippo, aveva paura a restare da sola lì di notte. Ora non le trovo, ma ho visto delle fotografie dove la strada davanti a questa villa Santarella era proprio una strada di campagna, sterrata. Ma questo palazzo invece se l’è fatto costruire con i proventi appunto della commedia Na’ santarella, difatti ha fatto mettere nell’androne del palazzo i tre personaggi principali della commedia, tre staute, che sono una Don Felice, che è lui, Donna Rachele la superiora del convento che era Rosa Gagliardi e Santarella proprio all’inizio delle scale a fianco all’ascensore, che era Marietta Gaudiosi. Quindi in effetti villa Santarella doveva essere questa, se fosse stata una villa, però dato che all’epoca – beat’ a iss’ – il bisnonno aveva tanti soldi, la villa se la fece al Vomero e la chiamò palazzo Scarpetta. Lui aveva tra l’altro un biglietto da visita, perché aveva anche una casa a Roma, in cui c’era scritto: gran. uff. cav. Eduardo Scarpetta, Roma via Belsiana 60, Napoli Palazzo proprio. Si nu stev’ bene iss’.
Dunque, oltre il palazzo Scarpetta, chiamato così, aveva questa villa Santarella che si costruì proprio per stare un po’ isolato. Da quello che io ho potuto leggere tra le sue lettere e nei libri delle sue memorie, lui è sempre stato una persona sempre molto distaccata dal mondo dello spettacolo, del teatro, dal mondo della critica, dei giornali. Ci sono delle sue notazioni sui critici dell’epoca, poi ebbe questo famoso scandalo de Il Figlio di Iorio, la causa con D’Annunzio, lo attaccarono duramente. E allora quando si fece costruire questa villa su al Vomero, il famoso “commò sott’ e ‘ngop”, sottosopra, perché c’ha quattro torrette e sembra veramente un comò rovesciato, dove lui andava e stava in grazia ‘e Dio, fece scrivere – c’è ancora scritto – “Qui rido io”.
Qui, in questa casa dove ci troviamo ora, ci sono molte foto. Ve le descrivo un po’. Questa è mia nonna con mio padre, così si abbigliavano all’epoca i bambini. A me hanno detto che era mio padre, io pensavo che fosse una zia piccola. Questa è donna Amelia Bottone. Qui invece c’è il bisnonno Antonio Scarpetta con il nonno in una foto di posa. Ci tengo a far notare che per fare questo tipo di fotografia all’epoca bisognava restare fermi in posa, perché c’erano le lastre. Questi invece sono mio nonno Vincenzo con suo figlio, mio padre Eduardo. C’è una fantasia di nomi in questa famiglia enorme: Eduardo, Vincenzo, Vincenzo, Eduardo, anche mio figlio si chiama Eduardo! Questa qui, invece, è la maschera in gesso del bisnonno di Eduardo Scarpetta fatta su cadavere, e la cosa che più mi ha colpito è che – certamente sarà dettata dall’ictus – lui, che ha fatto ridere per tutta la sua vita, è morto, come si dice a Napoli, “co’ pizz’ ‘a riso”! Lì sotto ci sono quasi tutti i suoi manoscritti. Poi c’è questa cosa bellissima che è una radice che usava donna Rosa De Filippo quando rimaneva da sola su a villa Santarella. E dato che aveva paura girava per casa con questa cosa che onestamente è una mazza, una mazza veramente può ‘ciaccare. E donna Rosa De Filippo è quella che vedete nel quadro.
Questa, invece, è la scrivania dove Eduardo Scarpetta ha scritto penso gran parte dei suoi lavori. Era su a villa Santarella poi quando vendette venne qui a palazzo Scarpetta. Questo è uno dei tanti manoscritti del bisnonno che noi conserviamo. Questo è particolare perché è Il figlio di Iorio, quello che gli causò tanti guai, tanti pasticci, tanti fastidi che, ecco, è stato scritto Vomero, villa Santarella, luglio-agosto 1904. Ma la cosa più interessante è che qui, alla fine, lui scrive “Deo gratias, 27 luglio-13 agosto, diciotto giorni di lavoro assiduo spero a Dio che non mettesse in testa a D’Annunzio di venire a rompere le uova nel paniere”, Scarpetta. Questa era la mentalità del bisnonno, si divertiva. Poi D’Annunzio gliele venne a rompere le uova nel paniere, ma le uova non si rupperro. Qui ci stanno due fotografie con dedica al nonno però, una che è di Umberto di Savoia, Umberto II e l’altra la moglie Maria José, perché erano assidui al Teatro Nuovo quando il nonno recitava al Teatro Nuovo e c’era anche Eduardo. Loro avevano un palco specifico dove dovevano essere autoritratti. E per questo le corna del mio bisnonno erano reali!
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