Intervista a MARCO MESSERI
Marco, dopo tanto teatro, cinema e televisione, senza tralasciare la tua passione per la pittura, ora ti sperimenti anche come scrittore. Cosa ti ha spinto a riscrivere “La Vita” di Benvenuto Cellini?
«Con questo libro ho cercato nelle mie radici, scavalcando i limiti temporali e risalendo a quattordici generazioni fa. Di questo lungo capolavoro della letteratura italiana ho ripreso gli episodi che più mi hanno colpito, raccontandoli in stile contemporaneo e divertente. Benvenuto Cellini è stato un genio impetuoso, un giustiziere di se stesso ma anche un mistico e chiaroveggente, oltre che un immenso scultore e orefice».
Cosa hai imparato da questa avventura nel passato?
«Ci sono state tante persone che sono passate lasciando una traccia importante e che possono insegnarci molto; le vite degli altri mi incuriosiscono e, approfondendole, mi possono far cambiare. Ad esempio, attraverso questo lavoro ho scoperto che nel ‘500 fiorentino gli artisti si emanciparono, ma erano soli, invidiati da una folla immensa di cretini. Però, combattendo contro la mediocrità, arrivarono all’introspezione: Benvenuto Cellini, autore di opere immortali, dopo una esistenza sventurata, nonostante le calunnie e le condanne subite, testimoniò la sua identità e la sua Fede fino alla fine, dettando ad un bambino, come vendetta postuma contro la stupidità, le sue memorie che io ho riscritto».
L’introspezione interiore è stata importante nella tua esistenza?
«Prima di morire tutti dobbiamo guardarci nell’anima: conosco tante persone che vanno in crisi a sessant’anni mentre a me è successo molto prima. Ho imparato che è importante vivere con arte il momento presente, amando le ore che passano ed allontanando relazioni e situazioni negative. La vita assume un sapore diverso se si vive con amore: la morte è non vivere pienamente il presente».
Cosa ti ha spinto a guardare così profondamente dentro te stesso?
«La mia introspezione è iniziata fin dall’infanzia, durante la quale ho sofferto molto. Sono nato quasi morto, buttato in un secchio di lamiera: fu un parto difficilissimo e cercarono di salvare mia madre. Fino a dodici anni ho avuto seri problemi d’asma, restavo spesso solo in casa, affacciato alla finestra a guardare gli altri bambini che giocavano. Questa sofferenza mi costrinse ad ascoltarmi, dandomi la forza di fare delle scelte non condivise dagli altri e di uscire dai luoghi comuni».
Come ti sei scoperto artista?
«Ho un naturale talento per dipingere e per disegnare caricature; inoltre, a scuola tenevo sempre banco con i miei compagni e facevo ridere tutta la classe. Purtroppo, nella scuola regna spesso l’appiattimento e l’assoluta superficialità: nessuno aiuta i ragazzi a valorizzare le proprie attitudini e ad approfondire i valori più segreti dell’esistenza. Quindi ho dovuto fare da solo un bel lavoro di emancipazione dalla mia famiglia, imparando che è necessario lottare per esprimere e sviluppare la propria identità in qualunque situazione. Mio padre insegnava economia, mia madre era casalinga e anche nel piccolo paese dove sono nato nessuno ha mai pensato all’arte. Nonostante tutto, ho lottato per frequentare il liceo artistico e quando un giorno vidi uno spettacolo del grande Paolo Poli, capii che è possibile vivere da artista: andai a studiare a Milano e, nemmeno ventenne, esordii in teatro in uno spettacolo da lui diretto».
Come nacque il tuo rapporto con Troisi?
«Dopo esserci conosciuti in occasione del programma televisivo “Non Stop” (Rai Uno 1977 – 1979, ndr), nacque tra di noi una profonda amicizia. Avevamo avuto entrambi un passato sofferto per problemi di salute: eravamo chiusi e solitari, ma ci piaceva ridere. Non a caso, consapevole delle tante persone sofferenti che sono intorno a noi, ho spesso recitato nelle vesti di personaggi un po’ bizzarri e comici che mi permettevano di affrontare la pazzia con ottica seria. Uno degli sketch comici di maggior successo tra quelli realizzati con Troisi, ancora oggi molto ricercato su internet, raccontava l’incontro con un matto che diceva delle cose sagge, senza l’orgoglio dei sapientoni. Anche se difficile, è molto importante cercare di restare semplici e riuscire ad essere ogni giorno un po’ bambini».
Ti piace stare con i bambini?
«Mi sono sempre trovato bene con i bambini; giocavo spesso con mia sorella, che è dieci anni più giovane, e la portavo sempre insieme a me, anche in bicicletta, che è rimasta una mia passione. Più tardi, sono stato un padre molto presente con i miei due figli: ricordo le tante cavalcate nei boschi o le gite in bici già in tenera età. Studiando l’arte, ci accorgiamo che il bambino è sempre stato amatissimo nel nostro Paese, un punto di luce nella maggioranza delle famiglie. Questo è uno dei motivi per cui i pittori italiani hanno sempre saputo dipingere meglio di tutti le innumerevoli raffigurazioni della Madonna con il Bambino Gesù: nel nostro inconscio il valore del bambino e della Fede è stato vivo per moltissimo tempo. Poi, come un acido, è arrivato il ‘700 che ha distrutto tutto: il secolo dei lumi, mettendo la mente prima dell’anima, ha determinato un inganno enorme che ancora ci portiamo dietro. Liberarci da questa falsità sarà una battaglia ardua, ma che dovrà essere vinta; anche la Chiesa deve impegnarsi in questo, oltre che non perdere l’amore per l’arte».
Qual è la tua esperienza con la religione cattolica?
«Fin da piccolo, di tutto il mondo cristiano, Gesù è la Persona che più mi rapisce e affascina: ricordo con emozione di averLo sognato a otto anni che mi veniva incontro con il Suo Cuore in mano! Ho fatto un lungo percorso di formazione scolastica con i salesiani, ma da qualche anno, sentendo il desiderio di comprendere in profondità la figura di Cristo, ho studiato il Vangelo di Marco, mentre ora mi ripropongo di affrontare quello di Matteo: leggere il Vangelo mi sbalordisce e scopro con stupore tante cose bellissime».
Quali “scoperte” hai fatto meditando le parole di Gesù?
«Ad esempio, mi sono reso conto che è stato Gesù a dire che il matrimonio non si può sciogliere: sembra una cosa strana, ma conosco tanti ragazzi bellissimi rimanere disperati tutta la vita per la separazione dei genitori; inoltre, spesso da adulti divorziano a loro volta, iniziando una catena infernale dalla quale è molto difficile uscire. Apparentemente sembra che il mondo si evolva, ma in realtà costruiamo spesso delle scorciatoie non all’altezza della dignità della Persona. Oggi riteniamo il divorzio un diritto che sembra facilitarci perché ci permette di liberarci di una persona che ci crea problemi. Ma la battaglia da fare è a monte: dobbiamo formare i giovani ad essere maturi e a scegliere bene un coniuge con il quale, tra tante difficoltà, si dovrà percorrere un lungo viaggio, trasmettendo ai propri figli fiducia nella vita. Ho rivalutato anche la posizione della Chiesa sul tema dell’aborto: forse può comprendersi in una situazione di emergenza, ma come non riflettere su cosa è veramente l’embrione? In generale, dovremmo recuperare l’amore per tutta la natura, con un equilibrio dentro il quale c’è anche l’uomo: il recente disastro nucleare in Giappone è una grande cinghiata sulla testa dell’umanità di cui ci accorgeremo forse fra trenta anni».
Qual è l’atteggiamento giusto per coltivare la speranza?
«Credo che tanti disastri dell’umanità siano causati dalla superficialità: è un dolore universale che si può combattere solo tornando ad essere umili. Mi ha colpito molto la testimonianza di Benvenuto Cellini, il protagonista di questo mio primo romanzo appena pubblicato: artista di altissimo livello, nonostante l’esistenza disordinata e le persecuzioni, trovò l’umiltà per curare la sua anima. Durante la sua ultima, durissima prigionia, rinchiuso da solo in una cella buia, sfruttava l’unico quarto d’ora di luce quotidiana per leggere la Bibbia: questo gli ha permesso di fare un profondo viaggio interiore, scoprendo anche il grande valore della preghiera».
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